Viaggio attraverso l’Appennino
Questo non è un resoconto giorno per giorno del viaggio più bello che abbia mai fatto, quello si trova ovunque sul web. E non è neanche la descrizione di ogni singola tappa, che quelle sono descritte alla perfezione nel sito ufficiale della Via degli Dei, dove sono riportate tutte le informazioni utili per affrontare il viaggio.
Scriverò solo una raccolta di consigli e pensieri su questo cammino e sul cammino in generale.
Le FAQ
Uno degli obiettivi principalI di questo primo cammino di più giorni, per giunta in solitaria, era sopravvivere e farmi cogliere il meno possibile impreparata, perciò in fase di preparazione ho dedicato molta cura all’aspetto tecnico.
Ecco allora tutti i dubbi che mi hanno tormentato prima della partenza e tutte le risposte che oggi darei a chi mi rivolgesse le stesse domande.
Che scarpe hai usato?
Scarponi da trekking o scarpe da trail running? Questo è il problema…
Premessa fondamentale: ognuno fa quel che lo fa stare meglio.
La mia storia è questa: dopo essermi informata e aver realizzato che il percorso comprendeva parecchio asfalto e che ad alcuni sono venute le vesciche già alla fine della prima tappa, mi sono decisa a prendere delle scarpe da trail running. Un mese prima della partenza ho comprato delle fantastiche La Sportiva Karacal, comodissime e confortevoli, meglio delle mie pantofole, e gli ho fatto un bel rodaggio di un centinaio di chilometri. Fine della storia.
E invece no, per niente!
Perché qualche anno fa ho partecipato presso la sezione CAI della mia città a un corso di escursionismo che mi ha infilato in testa alcuni principi ormai impossibili da scardinare. Uno di questi è che in montagna ci si va con lo scarpone alto che ti protegge la caviglia. Aggiungi il fatto che lungo il percorso ci sarebbe stato fango. Aggiungi il fatto che non mi si forma una vescica dai tempi dell’infanzia sui pattini a noleggio (quelli blu di plasticaccia dura, per intenderci). Aggiungi il fatto che sono una tipa parecchio goffa, in grado di inciampare anche da ferma in piedi nella cucina di casa mia… figuriamoci su un sentiero dell’Appennino! Alla fine ho optato per i miei fedelissimi scarponi (che sento comodi, che mi lasciano il piede asciutto e che bla bla bla).
Devo dire che è stata una scelta azzeccata: sull’asfalto li ho legati bassi e sui sentieri in discesa più di una volta mi hanno protetto la caviglia.
E poi, come mi ha detto Alessio, una saggia guida ambientale escursionistica che ho incontrato lungo il viaggio: “Con le vesciche torni a casa da solo, con una storta ti devi far venire a prendere”.
Ognuno comunque è fatto a modo suo: in tantissimi lungo la Via avevano delle scarpe da trail e sono andati con un filo di gas; Romande, una signora francese sulla sessantina, se l’è fatta tutta in tenda coi sandali della Teva. Quindi insomma, ripeto, ognuno fa quel che lo fa stare meglio.
In quante tappe?
Sono partita più o meno da Palazzo de’ Rossi, dopo l’Oasi di San Gherardo, e non da piazza Maggiore: era piovuto tanto nei giorni precedenti e mi avevano detto che lungo il Reno il fango arrivava a metà polpaccio, giravano video di gente che in quei giorni arrancava nella melma tipo le Paludi della Tristezza della Storia infinita dove muore il cavallo del povero Atreius (che poi, a pensarci bene, è più povero il cavallo, visto che è lui a morire…), così ho preferito saltare quel tratto iniziale perché, in fondo, mi son detta: “non ho mica fatto niente di male!”
Parlando poi con altri ragazzi durante il cammino ho scoperto che in realtà la situazione era più che affrontabile.
Morale della favola? Non dare retta ai consigli della gente: ciò che è un problema per gli altri potrebbe non esserlo per te… e viceversa!
Comunque io ho fatto così:
- Palazzo de’ Rossi – Brento (con anello del Monte Adone a fine tappa): 14 km circa;
- Brento – Pian di Balestra: 28 Km circa;
- Pian di Balestra – Montecarelli: 16,3 km circa (perché Montecarelli è più di 5 km di trafficatissima statale oltre il Passo della Futa e grazie al cielo la mattina dopo la signora del B&B mi ha fatto la cortesia di accompagnarmi in auto nei pressi del percorso, altrimenti non sarei qui a raccontarlo ma mi avrebbero raschiato via dall’asfalto della SS65);
- Monte di Fo’ – San Piero a Sieve (variante Cammino di Galliano): 25 km circa;
- San Piero a Sieve – Bivigliano: 17 km circa
- Bivigliano – Firenze: 21,5 km
Ho diviso il percorso in 6 tappe perché la mia idea di viaggio include il concetto di riappropriazione del tempo: già nella vita di tutti i giorni andiamo di corsa, che senso ha farlo anche durante un cammino? Lungo la Via ci sono tantissimi luoghi meravigliosi da scoprire, tantissime persone interessanti da incontrare e tantissime cose buone da mangiare (e da bere). Vale davvero la pena rallentare, una volta ogni tanto.
E lo zaino? Deve essere al massimo 10% del tuo peso?
Assolutamente falso!
Sulla pagina facebook più frequentata di questo cammino (e utilissima per informazioni e aggiornamenti) rimbalza il falso mito che lo zaino non deve sforare il 10% circa del proprio peso corporeo.
Bene, facciamo due calcoli: io peso 50 chili scarsi quindi mi potrei concedere 5 kg sulle spalle. Il mio zaino da vuoto pesa 1,3 kg, il sacco a pelo ne pesa 1, poi c’è il litro e mezzo d’acqua che pesa 1,5 kg (altro principio inchiodato nel mio cervello: se vai in montagna parti con almeno un litro e mezzo, se poi trovi delle fonti fai il rabbocchino). Panini e snack facciamo 0,5 kg a stare scarsi?
Solo così siamo a 4,2 kg. Insomma, mi state dicendo che avrei solo 800 gr per cambio, caricabatterie e varie? Ma figuriamoci!
Il mio zaino pesava 8 kg ed effettivamente all’inizio era un po’ pesante ma dopo il secondo giorno non l’ho più sentito, davvero. Semplicemente il corpo, e soprattutto la mente, si abituano. Si abituano al peso dello zaino. Si abituano a fare tanti chilometri al giorno. Si abituano alle salite e, peggio, alle discese. Si abituano all’idea che quello che devi fare oggi è camminare, nient’altro.
Certo, ho individuato alcune cosine da cambiare: niente guida cartacea, meno antidolorifici (mai usati) meno compeed (mai usati ma qualcuno meglio averlo), più Voltaren (in formato damigiana lo fanno?). Magari niente sacco a pelo.
Cosa c’era nel mio zaino?
- 2 magliette di ricambio
- 1 leggins termico di ricambio
- 1 leggins, canottiera, maglia a maniche lunghe per dormire
- 2 paia di calzini
- 4 mutande e 1 reggiseno sportivo di ricambio
- ciabatte di gomma
- Poncho (oh, io mi ci trovo benissimo, odio invece il coprizaino)
- ghette (sante subito!)
- bustina con fazzolettini, minispazzolino, minidentifricio, minisaponetta, ecc…
- bustina con farmacia
- burrocacao
- mini portafoglio
- bussola e carta escursionisca 1:25000 (l’ho detto che sono old school)
- guida
- sacco a pelo
- snacks per un reggimento (usati tutti)
- FFP2 per il ritorno in treno (vedi sezione Chicche fantozziane)
Ti sei allenata?
Non saprei se definirlo allenamento: da qualche anno faccio escursioni in montagna con regolarità, almeno finché il caldo non si fa sentire, e comunque vado spesso a camminare anche in pianura. Due settimane prima della partenza per sicurezza ho fatto una decina di chilometri quasi tutti i giorni. Però questo vale per me.
Sarà la mia costituzione minuta e tignosa, sarà perchè sto cercando di andare da qualche parte ma non so bene dove, fatto sta che camminare è una cosa che mi viene bene: senza particolare allenamento tollero lunghe distanze e discrete pendenze purché abbia la possibilità di affrontarle col mio ritmo. In altri ambiti reagisco diversamente: in bicicletta duro 20 minuti al massimo, di corsa scendo a 3, a nuoto dopo mezza vasca mi devono ripescare col retino.
Diciamo che il camminare è l’elemento in cui mi sento più a mio agio.
Per mangiare e dormire?
La Via degli Dei attraversa un territorio ricco di borghi e piccoli paesini dove è sempre possibile trovare cibo e tantissime soluzioni per la notte: ci sono alberghi, B&B, camerate, appartamenti in condivisione, insomma ce n’è per tutti i gusti.
Io ho fatto così:
- a Brento in camerata da 8 con sacco a pelo. Colazione inclusa. Un solo bagno in comune ma pulitissimo. Possibilità di cenare in struttura, basta avvertire al momento della prenotazione.
- La casa delle guardie a Pian di Balestra in camera quadrupla (ma in stanza con me c’era solo un altro ragazzo) con sacco a pelo. Colazione inclusa. Tutto pulitissimo, immerso nel verde e appena ristrutturato. Possibilità di cenare in struttura e farsi preparare il pranzo al sacco per il giorno dopo. In assoluto il mio posto preferito.
- Il terzo giorno, deviando dalla traccia del cammino, ho dormito in un paesino molto oltre il Passo della Futa. Mi sono spinta a ben 6 km di trafficatissima statale dall’arrivo ufficiale della tappa perché i vari alloggi nei pressi del Passo della Futa non erano recensiti molto bene e io, non avendo fatto niente di male, ho preferito allungare e dormire nel pulito. Detto questo non mi sono trovata bene dove ho alloggiato (anche se la signora che mi ha ospitato è stata gentilissima) e non ci tornerei. Le soluzioni per me sono due: o evitare di dormire al Passo della Futa e arrivare fino a Sant’Agata, che partendo da Pian di Balestra è fattibilissimo, o aprire io stessa un B&B in zona, offrire un servizio coi controfiocchi come-dico-io così da fare il pienone e cambiare finalmente vita. Altro che Chiringuito sulla spiaggia!
- A San Piero a Sieve ho dormito in camerata col mio sacco a pelo e ho cenato benissimo all’Osteria All’Aglione. Il mattino seguente prima di partire ho recuperato il pranzo al sacco in un forno in paese.
- A Bivigliano con sacco sono stata in un appartamento condiviso, spazioso e pulito. Beatrice, la proprietaria, mi ha detto che le altre persone che avrebbero dovuto dormire lì avevano disdetto a causa del maltempo e così mi sono ritrovata ad avere la casa tutta per me per soli 20€! Un po’ mi sono vergognata… E Beatrice mi ha fatto pure la lavatrice! Ho cenato alla vicinissima Locanda di Bivigliano dove la mattina dopo ho anche fatto colazione e preso il pranzo al sacco.
Conclusioni: io mi sono trascinata dietro il mio sacco a pelo ma ogni alloggio, con 5€ in più, fornisce la biancheria da letto. Alla fine ho risparmiato 20 €. Ne è valsa la pena per un viaggio così corto? Assolutamente no. La prossima volta lascio a casa il sacco a pelo e risparmio un chilo sulle spalle… quello si che non ha prezzo!
La via è segnata bene?
Perdersi è impossibile: la Via degli Dei è segnalata con la sigla VD sui classici segni bianchi/rossi del CAI che sono ben visibili e molto frequenti (li trovate su rocce, tronchi, pali dei cartelli stradali, ovunque insomma), ai bivi è presente la segnaletica verticale e sul sito ufficiale della Via trovate anche la descrizione del percorso di ogni tappa con l’indicazione del numero dei vari sentieri CAI che percorrerete. Attraverserete infatti parte della rete sentieristica della zona sopra alla quale si sovrappone il cammino. Ho conosciuto due signori, dei veri veterani di Santiago, che quasi ogni giorno hanno sbagliato strada perché seguivano semplicemente i segni bianchi e rossi: non è che ogni segno b/r indica la Via degli Dei, non è che esiste solo la Via degli Dei, ma se seguirete la sigla VD arriverete a Firenze senza problemi.
Inoltre su internet è possibile trovare un po’ ovunque le tracce Gpx da caricare sul GPS o su Maps nel telefono (operazione quest’ultima che si può fare solo da PC, occhio…) ed esiste la carta escursionistica 1:25000 edita dal comune di Sasso Marconi, reperibilissima e, incredibile ma vero, non ha bisogno neanche delle batterie per funzionare!
Perdersi, con questi piccoli accorgimenti, è impossibile!
Se ce l’ho fatta io…
Una ragazza in cammino da sola?
Assolutamente e tranquillamente sì.
Le questioni che agitavano la mia testolina man mano che si avvicinava la partenza erano queste:
- “E se… mi succedesse qualcosa, che ne so, un infortunio, e avessi bisogno di aiuto?”
Se fosse successo credo che avrei trovato soccorso in breve tempo dato che dalla primavera all’autunno la Via degli Dei è molto battuta e volendo è possibile camminare tenendo sempre in vista qualcuno.
- “E se… qualche malintenzionato volesse farmi del male o approfittarsi dei miei scarsi 50 chili?”
Sono partita da sola anche per questo motivo.
Quale donna può dire di non essersi mai ritrovata a camminare da sola in una via, magari di notte, in una mano le chiavi e nell’altra il telefono, con la netta sensazione di non essere del tutto al sicuro? Ve lo dico io: nessuna. E questa sensazione appartiene solo a noi: gli uomini, anche i più sensibili ed evoluti, non la potranno mai comprendere. Per il genere femminile la libertà di movimento e la sicurezza, anche nei paesi occidentali, sono diritti solo parzialmente garantiti.
Io ultimamente ero diventata un po’ troppo guardinga nei confronti del prossimo e questo aspetto del mio carattere aveva iniziato a infastidirmi. Più siamo diffidenti più diventiamo ‘spaventabili’, e più siamo spaventati meno siamo liberi. E questo proprio non mi sta bene. Se poi a limitare la mia libertà sono io stessa allora il problema diventa intollerabile e deve essere smantellato al più presto.
Penso ci siano sane paure legate alla sopravvivenza -che mi tengo ben strette- e paure che invece intralciano e rallentano il cammino di ognuno di noi. Queste ultime le affronto di petto, con approccio anti-fobico, un po’ come quando si fa un tuffo: saggiamente controlli che sotto non ci siano scogli su cui schiantarsi, ti accerti che quello che si è buttato prima di te riemerga dalla schiuma nella sua integrità e poi prendi un bel respiro, ti tappi il naso e voli giù a corpo teso verso l’incontro con la superficie dell’acqua.
Così sono partita.
Aggiungo che, nonostante fossi praticamente l’unica donna sola in cammino durante quella settimana, mai lungo strade e sentieri ho avuto la sensazione di non essere al sicuro.
La top 10 – Quello che ha fatto respirare l’anima mia
La faggeta
Poco oltre Pian di Balestra, in direzione del Passo della Futa, si attraversa un luminosissimo bosco ceduo di faggi che in primavera indossa il verde tenerissimo di mille foglioline appena nate. Le faggete per me sono magiche: la corteccia liscia e le chiome chiare accarezzate dal vento frammentano i raggi del sole in mille coriandoli di luce che rendono l’atmosfera magica. Ci ho camminato dentro per tutta la mattina col sorriso scolpito sulla faccia e un incredibile benessere interiore.
La Tappa infinita
Dal momento delle prenotazioni negli alberghi pendeva sulla mia testa la spada di Damocle della seconda tappa: per dormire in un bel posticino che aveva catturato la mia attenzione ho scelto di allungare la seconda tappa di diversi km.
Mi son detta: “Ce la faccio!”
Ho portato a casa l’anellino del Monte Adone alla fine della prima tappa per alleggerire il chilometraggio della seconda (lì per lì mi sono sentita una gran furbacchiona) e il giorno dopo mi sono svegliata di buon’ora. Alle 7 ero già per strada.
I primissimi km sono volati in compagnia di Romande, anche se mi sono sfondata i piedi perché sono quasi tutti su asfalto.
Arrivata a Monzuno mi sono rimpinzata di cibo accaparrandomi tutto quello che di commestibile c’era sul bancone del bar del paese, incappando quindi in un blocco digestivo non indifferente (per i dettagli vedi oltre) che ha reso la tappa ancora più impegnativa di quanto non lo fosse di suo.
E lì mi son detta: “Non ce la faccio!”
Arrivata a Madonna dei Fornelli ho guardato con invidia i miei compagni di viaggio che festeggiavano l’arrivo. Io avevo davanti ancora 4 km e mezzo e varie centinaia di metri di dislivello positivo, con lo zaino ormai insopportabile sulle spalle e sulle anche (non mi sentivo più così furbacchiona…).
Ho arrancato nella faggeta piantando i bastoncini nel fango. Ho disceso l’abetaia fino a Pian di Balestra con i mignolini dei piedi ormai compromessi che gridavano aiuto. Ho attraversato il ponticello del giardino della Casa delle guardie con le ginocchia che mi tremavano e ho pensato: “Ma come mi sono ridotta…”
Ma sono arrivata alla fine e lì mi sono detta: “Ce l’ho fatta!”
Certo, quando mi sono tolta gli scarponi non è stato un bello spettacolo, ma immergere i piedi nell’acqua ghiacciata della fontanella del giardino non ha avuto prezzo, così come non ha avuto prezzo realizzare di poter fare tutta quella strada e sopravvivere.
Da quel momento ‘ho rotto il fiato’ e il resto del cammino è stato una vera passeggiata, la fatica non l’ho più sentita.
La casa delle guardie
La ragione per cui da Brento sono arrivata fino a Pian di Balestra sta tutta nella Casa delle Guardie. In teoria avrei dovuto camminare fino a Madonna dei Fornelli ma, dopo aver dato un’occhiata in internet, ho deciso che le soluzioni per dormire in paese non mi andavano a genio: volevo un posto che fosse immerso nel verde (se no stavo a casa mia), carino come-piace-a-me, molto pulito e che offrisse il posto in camerata con l’opzione sacco-a-pelo-per-morti-di-fame così da risparmiare un po’. Tutto questo l’ho trovato alla Casa delle Guardie, un’ex caserma della forestale adibita a rifugio con camerate al massimo da 4 persone, arredate in modo essenziale ma con gusto. Il tutto è immerso nel bosco e la pace regna sovrana. Il gestore, Andrea, è simpaticissimo e disponibile e ha cucinato per noi ospiti una cena coi fiocchi dandoci la possibilità di scegliere tra diverse opzioni, tra cui quella erbivora per me. Ciliegina sulla torta: se vuoi ti prepara anche il pranzo al sacco per l’indomani!
Se mai dovessi ripassare da quelle parti tornerò sicuramente.
Il cimitero militare al Passo della Futa
Quando all’università chiesi alla mia professoressa di storia dell’arte di definire in poche parole il Surrealismo lei mi disse: “Un ombrello su un tavolo operatorio” (che poi l’ha presa da Max Ernst, che la prese a sua volta da Lautréamont). Questa definizione è stata chiarificatrice: il Surrealismo è la bellezza di due entità reciprocamente estranee e collocate in un luogo che non appartiene a nessuna delle due. Se questa definizione è corretta, o per lo meno accettabile, allora mi sento di dire che il cimitero militare germanico al Passo della Futa è di una bellezza surrealista perché la pace e l’armonia che avvolgono quel luogo cozzano e si scontrano con il dolore e la bruttezza della morte di più 30 mila soldati.
Il cimitero, gestito da un ente tedesco che si occupa della manutenzione dei luoghi di sepoltura dei caduti di guerra germanici, è una collina dalla pendenza dolcissima e dal prato curatissimo, ammantata di tombe per lo più di soldati giovanissimi, persone del 1921 o giù di lì. In cima si trova una spirale di cemento che culmina con una lama grigia che si staglia all’orizzonte, rimanendo visibile per chilometri lungo il sentiero. È stato incredibile notare come su ogni lapide ci fosse una data che conoscevo: giorno e mese di nascita di questi ragazzi coincidevano con il compleanno di mio padre, di mio cognato, del ragazzo di Trento che ho conosciuto il primo giorno di cammino, c’erano i miei anniversari personali, date storiche che si studiano sui libri di storia. Sepolta al Passo della Futa c’è così tanta gente che ogni giorno dell’anno probabilmente è presente tra date di morte e di nascita. È questo che mi ha dato realmente la misura del luogo, più che osservare l’infinita distesa di lapidi.
Chi mai dalla Germania avrà portato fin qua in Appennino quelle poche corone di fiori posate sulle tombe di questi ventenni, morti probabilmente troppo presto per aver avuto dei figli?
La quercia di Prugnana
Dopo l’esperienza metafisica della sopravvivenza alla tappa mortale sono stata pervasa da un senso di invincibilità megalomane. Novella Forrest Gump, nulla poteva più spaventarmi, per cui ho iniziato a scegliere le varianti più lunghe quando ne ho avuto la possibilità. Così, anche per evitare chilometri di asfalto, ho raggiunto San Piero a Sieve passando dalla variante del Cammino di Galliano e casualmente mi sono imbattuta nella quercia di Prugnana, una maestosa roverella del 1700 censita tra gli alberi monumentali della Toscana. Sotto di lei ho trovato riparo durante la pioggia e ho pranzato in compagnia di due pecore chiacchierone (che tra erbivori ci si intende) e sotto lo sguardo vigile di due gatti vistosamente sdegnati dalla mia presenza.
Il convento di Bosco ai Frati
La variante del Cammino di Galliano l’ho scelta anche per poter visitare il convento di Bosco ai Frati, il più antico della Toscana, che custodisce un delicatissimo crocifisso di Donatello in legno di pero: come potevo perdermi una chicca del genere?
Il convento è aperto alle visite solo la mattina quindi sapevo che l’avrei trovato chiuso. Il pomeriggio è aperto gratuitamente ai gruppi previa prenotazione ma io non avevo prenotato e, soprattutto, non ero un gruppo.
“Vado a vedere lo stesso!” mi son detta. Sentivo che la giornata stava girando bene, magari c’era qualcuno a cui potermi aggregare. E infatti sul cammino ho incontrato il gruppetto di Alessio, la guida ambientale, che aveva preso accordi per farsi aprire il convento e che gentilmente mi ha invitato a fargli compagnia.
Quando la giornata gira bene uno se lo sente!
La santa pace
Camminare da sola immersa nella natura e nella tranquillità è stato bellissimo, un regalo che ognuno dovrebbe farsi ogni tanto. Ho rispettato i miei tempi, a volte sono andata spedita come un razzo, altre ho rallentato fino a fermarmi per curiosare tra i fiori e gli alberi del bosco. I miei occhi e i miei pensieri hanno trovato tutto lo spazio di cui necessitavano e si sono persi tra orizzonti impagabili.
Il silenzio
L’ingresso nella meravigliosa Firenze, soprattutto nella sua periferia, è stato un po’ uno shock: i suoi suoni da città inizialmente mi hanno infastidito, la folla mi ha infastidito, l’eccessiva presenza di edifici mi ha infastidito.
Escluso il tratto finale e l’orribile tratto asfaltato tra Brento e Monzuno, fino a Fiesole si cammina quasi sempre nel silenzio, o comunque in mezzo ai rilassanti e mai invadenti suoni della natura. Una settimana di quiete, intesa come mancanza di suoni molesti, è un altro di quei regali che ognuno si merita.
Condivisione
Fare questo viaggio da sola è stato bellissimo, mi ha accompagnato un grande senso di libertà, ma non la libertà astratta del tipo nella-natura-mi-sento-finalmente-libera-dai-pregiudizi-e-dagli-schemi-mentali-imposti-da-questa-società-capitalista-opprimente. No, parlo proprio del meraviglioso e ormai sempre più raro oggi-faccio-quello-che-pare-a-me-come-pare-a-me.
E questo già mi sarebbe bastato e avanzato.
Ma c’è di più. Perché sulla strada si incontrano tantissime persone, se vuoi cammini in compagnia, se vuoi cammini da solo, e ci si ritrova a fine giornata nello stesso ostello a condividere le proprie esperienze. Tutta gente che vedi e rivedi ogni giorno sui sentieri. Si lega facilmente quando le esperienze implicano bellezza e fatica, meraviglia e sudore.
Tra le persone che non potrò dimenticare c’è il trentino più simpatico ed espansivo d’Italia incontrato nell’albergo della prima tappa, che da allora non ho più rivisto ma con il quale mi sono scritta per tutto il cammino; ci sono due ragazzi genovesi che mi hanno salvata dal blocco digestivo distraendomi fino a Madonna dei Fornelli (e hanno dato la colpa dell’attuale situazione italiana alla gente della mia età, i nati negli anni ’80… ma come?), e c’è Alex, che ho incontrato e rincontrato più volte sui sentieri e che mi ha accolto in piazza a Firenze.
Tanta umanità e tanta ricchezza, insomma.
La riabilitazione del famigerato prossimo
Il prossimo è quell’entità oggi pesantemente svilita soprattutto da telegiornali, quotidiani e social media. Alle cronache assurgono solo crimini, fatti orribili, episodi di conclamata inciviltà e nessuno si prende mai la briga di narrare il buono. E badate bene, per buono non intendo eclatanti gesti di altruismo (che effettivamente non sono alla portata di tutti) ma parlo dei mille piccoli gesti di umanità che ogni giorno le persone compiono nel mondo rendendolo un posto migliore. Il rischio è quello di convincerci che il buono non faccia parte di questa esperienza che chiamiamo vita.
Lungo il cammino di quei piccoli gesti di umanità ne ho incontrati tanti: sorrisi, gentilezza, incoraggiamento, chiacchiere serali a cena con sconosciuti. Non dimenticherò mai Alex che, arrivato a Firenze il giorno prima di me, mi ha sorpreso in Piazza della Signoria con vino rosso e schiacciata per festeggiare il mio arrivo al traguardo.
Errare:
1a. andare qua e là senza meta o direzione certa; 2a. ingannarsi in un’opinione, sbagliare in ciò che si crede.
Il picco glicemico
Probabilmente in una qualche vita precedente devo avere tirato le cuoia a causa della fame e della sete su un sentiero di montagna perché ogni volta che esco, anche solo per un’escursione giornaliera, tendo a portare viveri per un reggimento e a mangiarmeli tutti, ovviamente. A volte mangio anche camminando e macino zitta zitta biscotti, barrette, panini e frutta secca. Facile immaginare il mio stato d’animo quando la mattina sono partita da Brento senza pranzo al sacco e con l’idea di rifornirmi a Monzuno, ben 14 chilometri più avanti: come compagni di viaggio l’ ansia e già un languorino tutto psicologico che mi stuzzicava lo stomaco.
Arrivata in paese alle dieci e mezza ho puntato dritto alla pasticceria e sotto gli occhi attoniti di un gruppo di ciclisti l’ho praticamente svaligiata: cappuccio, brioches, pizzette. Insomma, la fiera del carboidrato. Non satolla, ho puntato all’alimentari del paese per dei panini di emergenza con dentro la frittata (dico solo che sulla soglia si è affacciata Romande, la signora francese, esclamando: “Dove scè scibo scè Claudia!”).
Con rinnovata serenità ho ripresoil cammino… a stento. Perché la digestione si era ormai messa in moto e io non riuscivo più a fare un passo. L’apparato digestivo pretendeva ogni energia disponibile mentre il mio cervello ripeteva insistente: “Devi fare altri 14 Km, devi fare altri 14 Km, devi fare altri 14 Km”
Insomma: crisi.
Stavo procedendo a passo di lumaca, perdevo e prendevo tempo ad ogni metro. Per un attimo ho pensato di imbustarmi dentro al sacco a pelo e attendere rassegnata la fine su una panchina del campo sportivo. Poi da lontano, come un miraggio nel deserto, si sono profilate le sagome di altri due camminatori. Dopo aver girellato ancora un po’ intorno alla fontanella mi sono decisa a supplicarli: “Vi prego prendetemi con voi per un po’, facciamo due chiacchiere sulla via, non do fastidio, non sporco, se vi rallento lasciatemi pure indietro.”
Così, grazie alle chiacchiere con due ragazzi di Genova che nella mia testa ho ribattezzato Traino psicologico, sono riuscita a scalare anche il Picco Glicemico.
Ci siamo separati a Madonna dei Fornelli. Io con ancora quasi 5 km da fare che, incredibile ma vero, ho affrontato solo dopo aver mangiato un panino con la frittata. A mia discolpa, sentivo di nuovo i morsi allo stomaco…
Cosa ho imparato dalla grande abbuffata di Monzuno?
- a stare leggera per pranzo;
- che per strada c’è sempre qualcuno disponibile e gentile che ti dà una mano ad arrivare dove devi arrivare.
Acquisto guida
Progettare un viaggio, si sa, è parte del viaggio stesso e acquistare la guida per me ormai è un po’ come un rituale, per non parlare dell’effetto feticcio da posizionare sulla libreria del soggiorno. Questa volta però ne avrei potuto fare a meno: le carte all’interno, a mio avviso, non sono di gran qualità e le informazioni sulle singole tappe che si trovano nel sito ufficiale della via sono assolutamente esaustive e quindi più che sufficienti. Al contrario la carta escursionistica 1:25000 edita dal comune di Sasso Marconi è stata un valido acquisto che ripeterei.
Sacco a pelo
Come già detto, il sacco a pelo non è indispensabile in un’esperienza come questa, un viaggio breve attraverso centri abitati dove è possibile trovare sempre sistemazioni per la notte, e mi ha consentito di risparmiare complessivamente 20 €: potessi tornare indietro lo lascerei a casa. Crepi l’avarizia!
Le chicche fantozziane
Sezione della mia esistenza in continuo aggiornamento.
A quattro di spade
Scena: metà mattina, esterno di un bar di paese.
Una giovane (giovane?) camminatrice seduta a un tavolo traboccante di lovarie si sta placidamente abbuffando dinanzi ai passanti, basiti da cotanta voracia.
– Dì mo! la fame che c’ha questa?!
– Ma così piccola come fa?
La camminatrice sorride, timida di imbarazzo, sorbendo l’ultimo sorso di cappuccino e senza mai perdere il contatto visivo con le cibarie.
Si allaccia alla bell’e meglio gli scarponi e si alza lasciando al tavolo zaino e bastoncini, si fa largo all’interno del bar tra i tavolini vuoti. Un avventore solitario sorseggia sereno il suo caffè leggendo Il Carlino.
“Acqua fresca, sì, è proprio quello che ci vuole. Faccio il pieno e mi rimetto in marcia” pensa tra sé e sé la ragazza mentre richiude il frigorifero, ignara dei malefici lacci che la fretta aveva lasciato penzolare. Avanza un primo passo sicuro e deciso verso la cassa a cui ne segue uno più deciso ancora; la stringa dello scarpone sinistro si impiglia nell’occhiello dello scarpone destro e lo strattone è così forte (il passo era deciso, l’avevo detto) che la poveretta perde l’equilibrio finendo a quattro di spade sul pavimento di linoleum, percorrendolo in scivolata per diversi metri fino ad arrivare ai piedi del lettore del Carlino che, perplesso, alza le palpebre a mezz’asta sospirando un placido: “Bisogno?”
Se mi fosse successo all’esterno mi sarei bruciata gomiti e ginocchia… Poteva andare peggio.
Ritorno
L’arrivo a Firenze è inebriante, sono ubriaca di felicità e soddisfazione. Ad aspettarmi in Piazza della Signoria un ragazzo ritrovato più volte durante la Via ma arrivato prima di me. Mi accoglie con un bicchiere di rosso e la schiacciata toscana. Non avrei potuto sperare di meglio.
Ci sono ancora un paio d’ore prima che il treno mi riporti a casa così ci facciamo un giro per Firenze. Il tempo passa veloce, chiacchierando e filosofeggiando sulla vita come solo i reduci da un cammino sanno fare. Passa così veloce che mi ritrovo a correre attraverso la stazione di Santa Maria Novella tre minuti prima della partenza del mio treno che ovviamente, date le circostanze, è in elvetica puntualità!
Potrebbe il mio binario essere tra i primi in cima alla banchina? Certo che no!
Potrebbe almeno essere in logica progressione numerica, tipo che essendo il 18 dovrebbe venire subito dopo il 17? Assolutamente no!
“ll tuo binario è quello laggiù, vedi? In fondo al marciapiede, dove si perde l’orizzonte” mi dice un controllore “seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino”.
E allora corri, corri Forrest, con gli scarponi da montagna infangati, le ghette a penzoloni e lo zaino che si è fatto improvvisamente di piombo!
Alla fine ce la faccio: con un ingresso ad effetto mi materializzo a bordo, trafelata e sudata fradicia, ignara di aver portato a casa i cento metri in 9,57 secondi e aver scippato il record a Bolt. Scarico lo zaino dalle spalle e sotto gli sguardi incuriositi dei pendolari inizio a ravanare nel sordido cercando la famigerata FFP2, obbligatoria a bordo dei mezzi pubblici. Ce l’ho, sono sicura, l’avevo messa dentro ancora sigillata nella sua bustina, deve essere qui da qualche parte.
E la trovo. Eccola finalmente. La tengo tra le mani come Indiana Jones con il Santo Graal ne L’ultima crociata. Cerco di scartarla ma mentre apro il pacchettino lei, maledetta, schizza fuori come un pupazzo a molla. Schizza fuori dal suo involucro e schizza fuori dal treno, finendo sulle rotaie. L’intero vagone esplode in un empatico “Nooo!” che mi scalda il cuore.
Una signora gentile mi da la sua mascherina di scorta facendomi pensare che il mondo è pieno di brava gente.
E dire che prima di partire mi ero quasi convinta del contrario.
Arrivata al punto
La conclusione di questa esperienza è che questo è stato solo il primo di una lunga lista di cammini in solitaria che farò annualmente fino alla fine dei miei giorni per tutta la serie di motivi che ho appena messo nero su bianco e soprattutto perché il tempo trascorso camminando solo in compagnia di me stessa mi fa sentire decisamente più in armonia quando poi sto con gli altri. Certo, amici e parenti dovranno periodicamente sopportare i miei resoconti, perché sì, sono una di quelle persone che tornata da una bella esperienza non fa altro che parlarne per un po’. Si chiama condivisione.
O forse sarò misericordiosa e mi limiterò a scriverne.